SPIVA Scorecard: 9 critiche nel confronto tra FONDI attivi ed ETF

spiva scorecard fondi ed etf

Nel dibattito finanziario attuale, soprattutto sui social, si assiste a una crescente tendenza da parte di alcuni consulenti indipendenti e non solo a utilizzare la Spiva Scorecard come presunta prova definitiva dell’inefficienza della gestione attiva, promuovendo la gestione passiva come unica alternativa valida.

Questa posizione, però, solleva importanti dubbi metodologici perché La SPIVA Scorecard non confronta fondi attivi con ETF, ma con benchmark estesi di mercato di S&P.

Molti consulenti sembrano non aver mai letto il report nella sua interezza, limitandosi a ripetere slogan per sentito dire o, peggio, distorcendone consapevolmente il significato, omettendo costi e variabili fondamentali riconducibili più alla realtà.

Il risultato? Una narrazione fuorviante, spesso finalizzata a screditare la professione concorrente e attrarre clienti sprovveduti e poco informati.

La verità, come spesso accade, non sta negli estremi. La consulenza finanziaria richiede studio, contestualizzazione e trasparenza.

Anch’io impiego ETF nei portafogli, grazie alla consulenza evoluta che la mia banca mi mette a disposizione. Ma non tutti i clienti sono pronti o adatti a una consulenza a parcella, e questo va spiegato con onestà per lasciar decidere al cliente quale strada percorrere con i suoi pregi e difetti cercando in questo secondo caso di eliminarli tutti questi difetti consigliando solo fondi di “qualità” capaci di battere veramente nel tempo il mercato facendo l’interesse del cliente piuttosto che per un proprio tornaconto personale. 

Ridurre il dibattito al falso dilemma “o paghi la parcella con etf o tutto il resto è spazzatura” significa diffondere una visione distorta e dannosa. È invece fondamentale analizzare con rigore le criticità della SPIVA, comprenderne i limiti e valutare cosa può realmente offrire in termini di utilità per le scelte di investimento.

Solo con un approccio serio, equilibrato e informato possiamo restituire dignità al dibattito e offrire ai clienti una consulenza davvero consapevole, rispettosa della complessità del mondo finanziario.

Alessio Zaccanti consulente finanziario Fineco immagine della sidebar

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Tabella dei Contenuti

Analisi critica della SPIVA Scorecard

Quindi partiamo analizzandone i punti critici

Indici non investibili e distorsione del confronto

Un limite poco noto della SPIVA Scorecard è che i confronti vengono fatti con un indice non investibile, privo di commissioni di gestione e tali confronti avvengono utilizzando indici Total Return lordi, cioè che reinvestono i dividendi lordi senza tener conto della tassazione.

 

Questo aspetto è importante perché i fondi attivi e gli ETF, nella realtà, non ricevono il 100% dei dividendi lordi, ma devono scontare una ritenuta fiscale sui guadagni.

 

Questo significa che il confronto SPIVA è strutturalmente sbilanciato a favore dell’indice, e penalizza i fondi (e lo farebbe anche agli etf se il confronto fosse su di essi) anche quando la gestione attiva è efficiente.

 

Una differenza dello 0,5% annuo può sembrare piccola, ma su orizzonti di 10-15 anni fa la differenza tra una strategia vincente e una giudicata inefficiente, quando invece non lo è affatto.

 

Confrontare fondi o ETF che subiscono tassazione reale sui dividendi con un indice che include dividendi lordi falsifica il confronto sia che si tratti di fondi che ETF.

 

Eppure molti sui social confondono tali indici estesi di S&P con gli etf dicendo stupidaggini sulla SPIVA Scorecard del tipo “i fondi non battono gli etf” solo per sentito dire senza aver mai approfondito la metodologia della SPIVA Scorecard.

 

Oltretutto, se vengono criticati i fondi perché per la Spiva nel 90% dei casi negli ultimi 10 anni non sono riusciti a battere l’indice, allora un etf non riuscirebbe nel 100% dei casi neanche a replicare tale indice in quanto deve scontare la commissione di gestione e la tassazione dei dividendi/cedole.

 

E se a questa sottraiamo anche la parcella+iva del consulente (mediamente l’1% + iva), i costi di transazione e il “costo fiscale” della parcella (con la parcella si pagano più tasse, perché si tassano i rendimenti lordi senza considerare la parcella che è separata, riducendo il rendimento netto mentre nei fondi, invece, i costi sono già inclusi nel nav del fondo e si tassano solo i rendimenti netti, con un vantaggio fiscale per l’investitore.), allora tale sottoperformance incrementerebbe.

 

Ma sui social sembra che questi consulenti benefattori lavorino tutti gratis a costo zero. Raccontiamola tutta la verità, altrimenti si rischia di confondere gli utenti.

 

Siccome spiva é molto utilizzata dai consulenti autonomi come cavallo di battaglia per confondere e raccontare una realtà ai clienti parziale e subdola denigrando l’intero settore concorrente, per un sano confronto attinente alla realtà sarebbe stato utile simulare nel confronto la sottrazione dall’indice di una commissione di gestione media tipica degli etf, il costo medio della parcella (che rientra tra i costi che il cliente paga) e i costi di transazione medi.

 

Tali scenari di sicuro sarebbero diversi da quelli dipinti non solo per tutte le argomentazioni che sono state fatte, ma anche per l’incidenza di questa sulla performance finale e per una valutazione più oggettiva, reale e consapevole.

Aggregazione degli stili e benchmark generici

Il secondo elemento che può creare confronti non coerenti è che SPIVA Scorecard non fa alcuna distinzione tra fondi globali tematici, value, growth o small cap: tutti vengono confrontati con lo stesso indice, creando classifiche che ignorano le specificità dei singoli fondi.

 

In questo modo è inevitabile che, in certi periodi storici, un fondo growth possa battere l’indice mentre un fondo value lo sottoperforma, o viceversa, e che entrambi risultino “perdenti” in momenti in cui a sovraperformare sia un fondo core.

 

Tale distorsione esisterebbe anche con un eventuale confronto con etf value, growth, small cap ecc.

 

Queste distorsioni metodologiche dovrebbero essere tenute in debita considerazione prima di trarre conclusioni affrettate perché per esempio anche un etf s&p500 low volatility in gran parte dei periodi storici non batte l’etf che replica lo S&p500 per l’effetto concentrazione, ma in alcune circostanze tale scenario potrebbe invertirsi e la causa non sarebbero i costi ma proprio la differente tematica.

 

Un altro limite strutturale del report è che, nel caso USA, SPIVA Scorecard usa le categorie di Lipper e non quelle di Morningstar. E anche qui si crea confusione: ad esempio, tutti i fondi classificati come US Equity vengono confrontati con l’S&P500, indipendentemente dalla loro strategia (value, growth, blend, dividend, ecc.).

 

Trasparenza e TER nella SPIVA Scorecard

Un ulteriore limite rilevante del report SPIVA risiede nell’assenza di una distinzione tra fondi caratterizzati da livelli di Total Expense Ratio (TER) elevati e fondi con TER adeguati.

 

La metodologia adottata, infatti, non prevede né l’indicazione dei fondi specifici analizzati né una classificazione degli stessi in base alla struttura commissionale.

 

Un’analisi che segmentasse i fondi in funzione del livello di TER (ad esempio distinguendo tra fondi con spese superiori al 2,5% e fondi con spese pari o inferiori all’1,6% ) restituirebbe evidenze statistiche molto più significative e giuste ma soprattutto utili come vedremo.

 

Tale approccio consentirebbe di evitare che la semplice media aggregata annulli le differenze tra gestori di qualità e gestori meno efficienti.

 

La letteratura finanziaria mostra infatti come i gestori in grado di generare alpha positivo e battere il benchmark siano generalmente associati a fondi con una struttura commissionale equilibrata, non perché il costo di gestione non erode eccessivamente il rendimento lordo, ma perché é correlata con la bravura e le skills del gestore.

 

Mi spiego meglio per chi non ne conoscesse le dinamiche.

 

I bravi gestori infatti non hanno bisogno di incentivare il collocamento delle quote del loro fondo alzandone il Ter (nel quale é contenuto l’incentivo a banca e consulente oltre che la commissione del gestore) o l’incentivo a parità di TER, visto che sono molto richiesti sul mercato per le loro skills e risultati passati.

 

Viceversa, gestori con poca storia o con performance passate scarse, per essere collocati nei portafogli, hanno bisogno di incentivare di più la rete di distribuzione (il cosiddetto conflitto di interesse) alzando di conseguenza il ter del fondo o incrementandone la percentuale dell’incentivo.

 

In finanza infatti non funziona come nella vita reale in cui il costo più alto é giustificato da una qualità più elevata. Anzi è l’esatto opposto. Chi non ha mai fatto il consulente finanziario abilitato all’offerta fuori sede non conosce infatti tali dinamiche che influenzano in maniera indiretta e soggettiva la scelta di un fondo piuttosto che un altro da parte del consulente e finisce per identificare nel semplice costo la variabile che incide sulle performance.

 

Per ignoranza della materia o per confondere gli utenti per portarli verso la propria offerta.

 

Un’analisi che mettesse in luce queste dinamiche sarebbe stata sicuramente più etica e corretta, evitando di penalizzare i gestori meritevoli che, nell’attuale metodologia SPIVA, finiscono invece confusi in un unico calderone, con i loro risultati annacquati nella media generale.

 

Un’analisi che integrasse queste variabili (livello di TER, struttura commissionale e differenziazione tra classi di quote) fornirebbe risultati segmentati, più robusti, equi e metodologicamente corretti.

 

In tal modo si eviterebbe di penalizzare i gestori realmente meritevoli, i cui risultati, nell’attuale approccio SPIVA, rischiano di essere diluiti all’interno di un campione aggregato e non sufficientemente rappresentativo.

 

In tal caso il dibattito sul battere o meno il benchmark probabilmente si sposterebbe a favore di quello della valutazione della gestione attiva di qualità e non di qualità e aiuterebbe veramente il risparmiatore a far luce sull’incidenza dei costi non considerando il costo fine a se stesso (anche perché non c’è correlazione tra costo e performance di un fondo attivo) ma come diretta conseguenza della bravura o meno del gestore consentendo anche di dare una metrica su cui valutare l’operato del proprio consulente finanziario, capendo se le sue scelte allocative e di gestori protendono più verso il proprio interesse o quello del cliente.

 

E quindi capire se possono ricevere un valore aggiunto senza dover pagare una parcella separata o se questa sia per lui un costo utile o non utile.

 

In tal caso, visto che molti consulenti nominano Jack Boogle e la sua massima “performance sono incerte mentre i costi sono certi”, analogamente anche la loro parcella in tal caso sarà considerata un costo certo se il portafoglio è già costituito da fondi efficienti.

Persistenza della performance e metriche fuorvianti

Il report sostiene che un fondo che batte l’indice un anno ha scarse probabilità di farlo anche l’anno successivo. Tuttavia, non viene indicato di quanto un fondo sovra- o sotto-performi.

 

C’è una sostanziale differenza tra una sotto-performance di 0,02% e una di 5%. Un fondo che un anno sovraperforma del 10% e l’anno dopo sottoperforma dello 0,1%, per SPIVA Scorecard non è considerato “persistente, ma per un investitore consapevole, quel fondo ha generato valore netto extra del 9,90% rispetto all’indice di confronto, e questo è ciò che conta per chi investe.

 

Ebbene quell’extra performance potrebbe addirittura compensare eventuali sottoperformance rispetto all’indice per anni successivi ma rimanere sempre la soluzione vincente rispetto all’indice.

Concentrazione degli indici e impatto sulla performance

SPIVA Scorecard evidenzia come battere un indice esteso con costanza sia estremamente difficile, soprattutto nei periodi in cui la performance di mercato è fortemente concentrata su un numero ristretto di titoli, come le attuali “Magnifiche 7”.

 

Questa difficoltà è legata a un aspetto strutturale: gli indici utilizzati da SPIVA Scorecard, come l’MSCI World, sono ponderati per capitalizzazione e quindi oggi sono dominati da poche grandi aziende, spesso statunitensi e in prevalenza tecnologiche. Maggiore concentrazione significa anche rischio più alto.

 

Per esempio, oggi quasi tre quarti dell’MSCI World è composto da società americane, e solo 10 titoli rappresentano circa metà del suo valore. I fondi attivi, per loro natura e per statuto, non possono replicare fedelmente questi benchmark. Sono infatti soggetti a vincoli di concentrazione per motivi di sicurezza e gestione del rischio (quindi non un sintomo di cattiva gestione) che impediscono loro di assumere esposizioni eccessive su singoli titoli.

 

Inoltre, molti fondi attivi adottano strategie di diversificazione, ribilanciamento e contenimento del rischio specifico (idiosyncratic risk), tutte scelte che li pongono in svantaggio rispetto a indici concentrati quando questi ultimi sono trainati da pochi titoli in forte crescita.

 


SPIVA Scorecard stessa, nei suoi report più recenti, riconosce esplicitamente questo problema e ne sottolinea l’impatto anche sul futuro. L’analisi, infatti, copre un periodo in cui si è assistito al rally straordinario delle “Magnifiche 7”, e ciò potrebbe influenzare indebitamente le conclusioni, inducendo alcuni a pensare che questo regime di mercato possa durare all’infinito, un’ipotesi metodologicamente rischiosa.

Focus sulla performance assoluta nella SPIVA Scorecard

Nel dibattito gestione attiva vs gestione passiva viene eccessivamente posto il focus sulla performance assoluta del singolo strumento rispetto al benchmark e non si considerano altri fattori più importanti come la volatilità o il profilo di rischio per ottenere la performance, il rischio/rendimento (Sharpe, Sortino, max drawdown) e gli obiettivi dell’investitore.

 

Un fondo che ha ottenuto rendimenti simili all’indice ma con minore drawdown o volatilità è, per un buon consulente, preferibile, per SPIVA Scorecard invece è solo “nella media”. In tema di etf è come se si deve preferire l’etf sullo S&P500 piuttosto che l’etf S&P500 low volatility semplicemente perché negli ultimi 10 anni ha reso di più.

Portafoglio efficiente vs singolo strumento

Anche se, col senno di poi, in alcune asset class l’investimento passivo tramite ETF si è dimostrato più efficace rispetto alla gestione attiva, va ricordato che nessun consulente costruisce portafogli composti da un unico fondo. Le diverse asset class devono infatti essere integrate in un portafoglio complessivo, perdendo così la loro efficienza isolata e spostando il dibattito sul concetto di portafoglio efficiente.

 

A questo livello, però, nessuno misura più nulla: anche utilizzando strumenti passivi, la costruzione del portafoglio comporta scelte attive. In altre parole, ci si ritrova comunque a fare i “gestori attivi” della composizione, cadendo proprio in quel “peccato originale” tanto denigrato e usato come cavallo di battaglia in modo scorretto e subdolo per attrarre clienti.

 

Per questo motivo il dibattito intorno allo SPIVA Scorecard risulta sterile, parziale e incompleto, generando soltanto confusione nel cliente.

 

In una vera gestione, infatti, fondi ed ETF vengono combinati in base a strategie, orizzonti temporali e obiettivi.

 

Affermare che un singolo fondo non abbia battuto il benchmark non dice nulla né sull’efficienza dello strumento nel tempo, né su quella complessiva del portafoglio.

C’è chi si limita ad accontentarsi di una replica passiva e chi, invece, sceglie di pianificare con il proprio consulente progetti a lungo termine che includano ottimizzazione fiscale, pianificazione successoria e strumenti di protezione: aspetti che nessun ETF, da solo, potrà mai offrire.

 


Ogni cliente è unico, e unica deve essere la sua pianificazione patrimoniale. È quindi fondamentale ampliare la prospettiva ed evitare di cadere nelle retoriche superficiali e ripetitive che circolano sui social, spesso diffuse dai soliti noti

Il ruolo della gestione attiva nella costruzione del portafoglio

Se combiniamo più ETF e creiamo un portafoglio facciamo gestione attiva. Chi decide i pesi di ogni ETF in portafoglio? Un consulente? Il cliente? Chiunque lo faccia attua una gestione attiva.

 

Per essere un vero investitore passivo devi detenere ininterrottamente il singolo ETF senza disinvestire o ribilanciare mai. Per esempio 20 anni di buy and hold. E senza l’ausilio di un consulente finanziario che ti applichi la parcella. E tale scenario è di difficile realizzazione.

 

La gestione del patrimonio non è una guerra ideologica tra ETF e fondi attivi, ma una questione di metodo, costruzione, pianificazione e disciplina.
Ma dal momento che ne inserisci un altro di etf nel portafoglio stai neutralizzando l’efficienza del singolo strumento, stai influenzando attivamente il risultato del tuo investimento con le tue scelte allocative, con i tuoi ribilanciamenti, stai facendo cioè lo stesso lavoro che fa un fondo comune a gestione attiva

Asset allocation e competenza del consulente

L’efficienza del singolo strumento, che sia un etf o un fondo a gestione attiva può essere facilmente distrutta se l’asset allocation del portafoglio nel suo complesso è fatta male e gestita male nel tempo. E si deve adattare al profilo e alle esigenze dell’investitore, e viene influenzato dalle scelte allocative adottate nel corso del tempo, dai ribilanciamenti.

 

Analogamente anche l’incompetenza e la poca esperienza del consulente potrebbe essere l’inefficienza e il costo maggiore per il cliente.
Da qui parte una considerazione: Un fondo investe in titoli ed etf. Un consulente remunerato a consulenza o a parcella fa investire il proprio cliente in titoli ed etf. A tutti gli effetti entrambi fanno la stessa cosa.

 

Chi garantisce tuttavia che le competenze del singolo consulente, che è solo nel costruire il portafoglio dei propri clienti, siano superiori a quelle di un gestore professionista di un fondo di una grande casa di investimento che è coadiuvato nel suo lavoro da analisti finanziari esperti?

Conclusioni personali sulla SPIVA Scorecard

I dati SPIVA Scorecard, spesso usati per screditare la gestione attiva, si basano su confronti metodologicamente distorti: indici non investibili, privi di costi e tassazione, aggregazioni fuorvianti tra stili diversi, assenza di trasparenza sui fondi analizzati e ignoranza delle dinamiche reali di mercato e consulenza.

 

Se decontestualizzati, questi dati portano a conclusioni errate e narrative ideologiche.
Il vero dibattito non è “ETF vs fondi”, ma riguarda metodo, costruzione del portafoglio e coerenza con gli obiettivi del cliente. Anche chi usa solo ETF fa gestione attiva nel momento in cui seleziona, pesa e ribilancia.


Raccontare tutta la verità significa riconoscere limiti, costi, vincoli e opportunità di ogni approccio, per aiutare il cliente a scegliere consapevolmente ciò che è meglio per lui, non ciò che conviene a chi consiglia.

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